Epatite C, epatite Delta e Hiv: tre condizioni che condividono lo stigma sociale, la difficoltà a intercettare il sommerso e la necessità di diagnosi precoce per migliorare la qualità della vita dei pazienti e far risparmiare il Servizio sanitario nazionale. Tra le cause delle mancate diagnosi, infatti c’è la frammentazione della sanità: le Regioni procedono a velocità diverse e, anche dove il Ministero ha fornito indicazioni chiare, come per lo screening per l’epatite C, le risposte dei diversi Ssr sono state eterogenee.
Altri problemi? La comunicazione spesso insufficiente, la difficoltà di accesso ai test e i servizi di sorveglianza che non presentano lo stesso livello di efficienza a livello nazionale. Questi e altri gli spunti emersi durante l’evento “L’emersione del sommerso nelle malattie infettive in Italia: modelli organizzativi a confronto” che si è tenuto nel corso del recente Forum Risk Management ad Arezzo. Durante l’incontro, realizzato con il contributo di Gilead Sciences, sono state raccontate anche alcune best practices riferite a screening e presa in carico, attuate a livello locale.
Riorganizzare il territorio
In apertura, Giovanni Rezza, Direttore generale del Dipartimento di Prevenzione del Ministero della Salute, ha ricordato lo stanziamento di oltre 70 milioni di euro per lo screening gratuito di popolazione per l’epatite C rivolto ai nati tra il 1969 e il 1989: “Al 31 dicembre 2022 erano stati screenati circa 140 mila individui nella popolazione generale, circa 20 mila persone afferenti ai SerD e quasi 13 mila detenuti. Sono numeri piuttosto rilevanti, ma che non possono soddisfare l’esigenza di uno screening ampio di popolazione”.
Per questo si è deciso di prorogare il test fino alla fine del 2023 e di istituire un gruppo tecnico di coordinamento, monitoraggio e valutazione dello screening “che dovrebbe coordinare le attività intraprese, monitorare gli interventi previsti e attuati e valutare i risultati raggiunti”. Per affrontare le sfide del futuro, secondo Rezza “servirebbe una riorganizzazione della sanità territoriale, con un rafforzamento dei dipartimenti di prevenzione. Occorre anche fare uno sforzo per rilanciare il settore statistico-epidemiologico a livello territoriale, per non soffrire più la mancanza di dati”.
Hcv, serve lo screening allargato
A luglio 2021, secondo il registro Aifa erano circa 250 mila i soggetti con Hcv in Italia. Gli esperti stimano un sommerso di circa 300-400 mila persone. La proposta per intercettarle è allargare lo screening in atto anche alle coorti di nati tra il 1948 e il 1968. “L’identificazione di un’infezione del tutto asintomatica attraverso lo screening dell’epatite C, è indirizzata in primis alle popolazioni più giovani per motivi di sostenibilità economica, – ha spiegato Loreta Kondili, medico ricercatore del Centro nazionale per la salute globale dell’Istituto Superiore di Sanità – e ha lo scopo di diagnosticare gli infetti e ridurre il rischio della trasmissione dell’infezione quindi ridurre l’incidenza delle nuove infezioni. Le popolazioni più giovani sono quelle che hanno una vita più attiva con più alto rischio di trasmettere l’infezione, se presente. La diagnosi dell’infezione da HCV nella popolazione nata tra gli anni ‘48-’68 è ugualmente importante, con un’aggravante in più: il danno d’organo (fegato e altro) presente in molti di loro, richiede prontamente la cura per ridurre la progressione della malattia correlata all’infezione cronica da epatite C”.
Francesco Saverio Mennini, direttore Eehta Ceis dell’Università Tor Vergata di Roma ha riferito che “tutti i programmi di screening analizzati dal punto di vista dell’impatto economico si sono rivelati non solo costo-efficaci, ma spesso anche cost-saving, quindi efficaci nel far emergere il sommerso e con un impatto positivo in termini di riduzione dei costi sia per il Ssn sia per quanto riguarda quelli indiretti. Il modello organizzativo e gestionale, però, diventa una variabile fondamentale per quanto riguarda l’efficacia e l’efficienza del programma stesso”. Per implementare lo scree ning allargato, quindi, occorre lavorare su modelli omogenei a livello regionale ed effettuare un monitoraggio costante sullo stato d’avanzamento.
Un governo di filiera per l’hiv
Il 37% delle persone che nel 2020 hanno scoperto di essere Hiv-positive avevano già i sintomi. Quelle che si sono sottoposte al test dopo un comportamento a rischio sono poco più di un quarto (il 27%). Questi numeri testimoniano la scarsa consapevolezza sulle malattie sessualmente trasmissibili e parlano dell’importanza di testarsi (anche) rispetto all’Hiv. Ha sottolineato Barbara Suligoi, direttore del Centro operativo Aids dell’Istituto Superiore di Sanità: “Sarebbe importante l’unificazione dei sistemi di sorveglianza e la digitalizzazione degli stessi. In Italia abbiamo una raccolta dati separata per Hiv e Aids. L’Istituto Superiore di Sanità chiede che vengano uniti i due registri per avere un panorama univoco di ciò che succede nel nostro Paese. Chiediamo inoltre una piattaforma unica, nazionale e informatizzata. Spesso le schede Aids arrivano in istituto su carta, inviate per posta, con tutto ciò che questo comporta anche in termini di privacy”.
Anche in questo caso è stato evidenziato un problema organizzativo, visto che i servizi per l’Hiv sono ancora molto focalizzati sull’ospedale. Durante l’incontro è stata sottolineata la necessità di un governo di filiera, in continuità tra ospedale e territorio che permetta di gestire la cronicità ad alta complessità. differenza dell’epatite C, infatti, dall’Hiv non si guarisce: con le terapie a disposizione i pazienti possono avere un’aspettativa di vita simile alle persone senza virus e una qualità di vita molto alta. Però devono continuare ad essere seguiti dal Ssn. Per quanto riguarda la prevenzione, Lucia Ferrara, docente alla Sda Bocconi di Milano, ha sottolineato la necessità di una “sanità d’iniziativa che si muova in maniera proattiva, riconoscendo quali sono le coorti di popolazione nella quali oggi c’è la maggiore trasmissione del virus”. Inoltre, occorre trovare strategie diverse per far emergere il sommerso, offrendo il test in maniera attiva e anche al di fuori degli ospedali.
Occorre standardizzare il test per l’Hdv
Infine l’epatite Delta, una delle prossime sfide di salute pubblica. È la condizione più complessa delle tre poiché richiede un’energica azione di awareness anche tra il personale sanitario. Si tratta di una malattia considerata rara (come tale è inclusa nella rete Orphanet nonché definita sia da Fda che Ema) pur avendo un’incidenza molto alta in chi ha l’epatite B. È molto complessa da stimare, perché il test non è standardizzato a livello nazionale.
I dati a disposizione grazie allo studio Piter riguardano solo i pazienti HbsAg-positivi che si sono rivolti ai centri di cura in Italia e non a tutte le persone infette da epatite B in Italia. “Degli oltre 4.700 arruolati, il 22% non è stato testato per l’Hdv – ha riportato Kondili – e questo dato non è confortante, perché parliamo di un sommerso importante già nei centri ad alta specializzazione sulle malattie del fegato”. La prevalenza registrata dallo studio Piter è di 9,3% anticorpo positivo. Di questi, meno della metà è stato testato per l’infezione attiva. La road map per contrastare la diffusione del virus passa attraverso la creazione di cultura nel personale sanitario e la ricerca automatica del virus in tutti i soggetti HbsAg-positivi, la costruzione di un network che colleghi centro e periferia e una gestione uniforme e capillare.
Come affrontare le sfide aperte
In chiusura, Walter Ricciardi, a nome della World Federation of Public Health Associations, ha sottolineato come il problema risieda nel modello di risposta che il Ssn intende fornire: “Il sistema universalistico finanziato dalla tassazione e gratuito al momento dell’uso, che si occupa anche di prevenzione, è arrivato a una crisi strutturale, non c’è più possibilità di resilienza. Oggi le risorse non ci sono e quindi non possiamo finanziare gli interventi che auspichiamo”.
La risposta, per Ricciardi, risiede nel Mes Sanità: “Trentasette miliardi di euro messi a disposizione dall’Unione europea da tre anni, che ci permetterebbero di catalizzare le energie in maniera razionale”. Ricciardi ha sottolineato come questo sia il secolo delle malattie infettive: “Tra poco probabilmente avremo le morti correlate all’antimicrobicoresistenza che supereranno quelle per cancro. Come affrontare questo problema? Con la consapevolezza, con la collaborazione, con una guida politica saggia, che a livello europeo c’è, e con una guida tecnica che lavori sia all’interno dei propri silos, sia con l’industria e i cittadini”. Infine, il nodo della logistica: “Abbiamo bisogno di un allineamento tra la visione scientifica e quella politica, mediata da una capacità gestionale. Altrimenti questi problemi non saranno mai risolti”.
Fonte: aboutpharma.com